- lunedì 17 Giugno, 2024

L’investimento in obbligazioni è spesso percepito come un’opzione relativamente sicura rispetto ad altre, come ad esempio quello in azioni. Tuttavia, anche le obbligazioni comportano una serie di rischi che gli investitori devono considerare attentamente. Comprendere questi rischi è essenziale per prendere decisioni di investimento informate e per gestire al meglio il proprio portafoglio.

 

I rischi possono essere legati a svariati aspetti dell’investimento: dalla valuta con cui è stato effettuato, al valore assunto dal bond, ai tassi che interessano il mercato fino al grado di affidabilità dell’emittente.

 

L’acquisto di titoli obbligazionari presenta, di fatto, quattro tipi di rischio.

1. Rischio di cambio

Per le obbligazioni emesse in valute straniere, esiste il cosiddetto rischio di cambio.

 

Le fluttuazioni nei tassi di cambio possono influire sul rendimento delle obbligazioni quando i pagamenti di interessi ed il capitale rimborsato vengono convertiti nella valuta domestica dell’investitore. Questo rischio può aggiungere un ulteriore livello di incertezza all’investimento in obbligazioni estere.

 

Per l’investitore italiano, e più in generale per quelli dell’Eurozona, le obbligazioni denominate in una valuta diversa dall’euro comportano sempre una rischiosità notevolmente più elevata rispetto a bond equivalenti (per tipologia di tasso, scadenza, rating e seniority) denominati nella moneta unica, anche quando la vita residua dell’obbligazione è relativamente breve (dai 6 mesi in su).

 

Sia le cedole che, soprattutto, il rimborso a scadenza, o il ricavato della vendita in caso di dismissione anticipata, sono infatti esposti al rischio che la valuta estera si deprezzi nei confronti dell’euro, erodendo progressivamente il rendimento dell’investimento. Basti pensare che anche la moneta più solida ha una volatilità annua nell’ordine almeno del 7% nei confronti dell’euro.

 

Le valute più battute diverse dall’euro sui mercati obbligazionari, esposte in ordine di volatilità crescente del relativo tasso di cambio con la moneta unica, sono:

 

  1. Il dollaro Usa e la sterlina inglese tra quelle più importanti e meno volatili, in un’ottica di diversificazione degli investimenti, caratterizzate da una quota pari al 7% di volatilità annua;
  2. Il dollaro australiano, il dollaro neozelandese e quello canadese tra le classiche “commodity currency” (ovvero, le principali valute legate all’andamento delle materie prime), battute anch’esse in un’ottica di diversificazione degli investimenti nelle fasi di mercato più opportune;
  3. Il real brasiliano, il rand sudafricano, il rublo, la lira turca e parzialmente il peso messicano tra le valute ad alto rendimento, dove la volatilità del cambio è tale da mettere normalmente in forse sia l’extra-rendimento rispetto agli investimenti in euro che il pieno rientro del capitale a scadenza tradotto in euro.

2. Rischio di tassi

Il rischio di tassi, anche detto rischio di mercato, è connesso al deprezzamento che subirebbe un’obbligazione nel caso in cui si assistesse ad un aumento del rendimento corrente espresso dal mercato per titoli analoghi anche in termini di scadenza, o meglio di duration, e naturalmente di valuta: in tale circostanza, infatti, la discesa del prezzo sarebbe l’unica via possibile per procurare un aumento del rendimento di un’obbligazione a tasso fisso (anche step-up o step-down) o di tipo zero coupon, discesa che si manifesta in modo tanto più ampio – a parità di variazione del rendimento di mercato – quanto più lunga è la duration del titolo.

 

Poiché la vita residua di un’obbligazione, e quindi la sua cosiddetta modified duration, si riduce con il passare del tempo, dal momento in cui la scadenza (e quindi il momento del rimborso) progressivamente si avvicina, il rischio tassi e la quotazione del bond diventerà progressivamente meno sensibile alle variazioni dei rendimenti espressi dal mercato per titoli analoghi anche in termini di scadenza, oltre che di valuta.

 

Per chi porta i titoli a scadenza il rischio descritto non si tramuta in una vera e propria perdita in conto capitale, ma in un costo-opportunità: in caso di aumento del rendimento di mercato l’investitore, continuando a detenere le obbligazioni, si accontenterà di percepire proventi inferiori rispetto ai ritorni offerti in quel momento dal mercato.

3. Rischio di liquidità

Il rischio liquidità è inteso come maggiore o minore facilità di negoziare l’obbligazione in tempi sufficientemente rapidi, per importi anche consistenti e secondo uno spread denaro-lettera (o “bid-ask spread”) il più contenuto possibile: più la differenza tra prezzo-lettera (“ask”, ovvero il prezzo al quale è possibile acquistare al momento il titolo) e prezzo-denaro (“bid”, prezzo al quale è possibile venderlo) è elevata, tanto minore risulterà lo stato di liquidità del titolo, visto che lo spread diventa una vera e propria voce di costo (al pari delle commissioni di negoziazione, per esempio) in grado di penalizzare progressivamente il rendimento finale dell’investimento, in misura anche superiore al 2%.

 

Posto che non esistono mai problemi di liquidità per i titoli di stato italiani, per i quali si possono rilevare sempre spread denaro-lettera estremamente contenuti, ecco una scala che può valere in linea generale per descrivere un potenziale stato di liquidità progressivamente decrescente:

 

  1. Strumenti ammessi alle negoziazioni sul MOT (il mercato ufficiale delle obbligazioni e dei titoli di stato rivolto al prevalentemente a retail) e/o sul circuito multilaterale di scambio EuroTlx, entrambi regolamentati e facenti capo a Borsa italiana-Euronext;
  2. Bond non trattati sul MOT o EuroTlx, ma per i quali Bloomberg o Reuters riportano quotazioni indicative da parte di dealer;
  3. Obbligazioni per le quali, pur non essendo rilevabili quotazioni indicative, Bloomberg o Reuters danno un’indicazione di fair price (ovvero, una stima del prezzo dell’obbligazione più oggettiva possibile, che prescinde dal suo valore corrente di mercato);
  4. Titoli per i quali non sono rilevabili né quotazioni indicative né prezzi teorici.

4. Rischio di credito

Il rischio di credito, o rischio di insolvenza, si riferisce alla possibilità che l’emittente dell’obbligazione non sia in grado di effettuare i pagamenti di interessi o di rimborsare il capitale alla scadenza. Questo rischio è più elevato per le obbligazioni societarie rispetto a quelle governative.

 

Connesso alla probabilità che non vengano onorate puntualmente nel tempo le cedole o il rimborso del capitale, il rischio di credito è definito in prima battuta dal giudizio (“rating”) attribuito all’emittente, o alla specifica emissione obbligazionaria, dalle principali agenzie di rating a livello internazionale (Moody’s, S&P, Fitch e più a distanza DBRS).

 

Dal livello del rating, e dal fatto che ricada nell’area “investment grade” piuttosto che “speculative grade” (rispettivamente una sorta di seria A e di serie B del credito, mentre la serie C è praticabile solo per specialisti), dipende il rendimento aggiuntivo che il mercato richiede all’emittente per remunerare il maggiore o minore rischio di credito relativo all’emittente o alla specifica emissione obbligazionaria, se è coperta da rating.